Tra le vestigia più diffuse e meglio conservate dovunque sia arrivata la dominazione di Roma ci sono soprattutto quelle degli acquedotti, realizzati con tecniche che hanno sfidato l’usura del tempo.

Tra i tanti acquedotti costruiti dai Romani, il più lungo e articolato attraversa mezza Campania, dall’Appennino fino al mare. È l’Acquedotto Augusteo, chiamato Aqua Augusta Campaniae, che inizia da Serino, tra i Monti Picentini, e raggiunge la costa flegrea, nella magnifica Piscina Mirabilis, tra i più originali e imponenti monumenti flegrei. Ben 92 chilometri di lunghezza lungo il percorso principale, che, con l’aggiunta delle numerose diramazioni, raggiungono i 145 chilometri dell’intero circuito.

Fu durante l’impero di Augusto, tra il 33 e il 12 a.C., che fu realizzata la grande infrastruttura necessaria a portare l’acqua a gran parte delle città costiere della Campania, Napoli compresa. Ad alimentarla era la Fontis Augustei, a circa a 376 metri sul livello del mare, prossima al monte Terminio, dunque nel territorio di Serino, noto per essere particolarmente ricco di acqua. La realizzazione di un’opera così grande e complessa nasceva dall’esigenza di assicurare il rifornimento idrico ai sempre più importanti insediamenti dell’area flegrea e, in particolare, al porto militare di Miseno, dove era di stanza la Classis Misenensis, la grande flotta del Tirreno voluta proprio dall’imperatore Augusto. Che assegnò l’incarico di progettare il nuovo acquedotto all’uomo a lui più fedele, che era anche il miglior ingegnere di cui Roma disponesse in quel periodo: Marco Vipsanio Agrippa, allora curator aquarum.

Nel suo lungo percorso, l’acquedotto attraversa vallate, supera monti e colline e procede per lunghi tratti anche sottoterra, in gallerie scavate nella roccia. Anche gli stili utilizzati sono diversi, a seconda delle caratteristiche geologiche delle diverse zone e delle parti sotterranee o fuori terra.

Il percorso iniziava con due rami che correvano in differenti direzioni per raggiungere le destinazioni previste. Un primo tratto, che captava l’acqua dalla sorgente “Urciuoli”, a 320 metri di altezza, sempre nella zona di Serino, costeggiava il fiume Sabato, raggiungendo Benevento in prossimità della Rocca dei Rettori, passando per Prata di Principato Ultra, Altavilla Irpina e Ceppaloni.

Il ramo principale, collegato alle sorgenti più alte di “Aquaro” e “Pelosi”, passa nei territori di Mercato San Severino, Castel San Giorgio, fino a Sarno, per poi giungere nella pianura nolana in prossimità di Palma Campania, dove ancora sono visibili in vari siti i resti dell’antica struttura. Da Palma una diramazione, realizzata in una seconda fase nel 27 a.C., portava l’acqua fino al castellum aquae vicino alla Porta Vesuvio, da cui veniva immessa nella rete idrica della città di Pompei, allora in costante espansione.  

Il ramo principale proseguiva attraverso i territori di San Gennaro Vesuviano, Piazzolla, Nola, Saviano, Santa Maria del Pozzo, con lunghi tratti interrati, per riemergere a Pomigliano e poi in successione Casalnuovo, Afragola, San Pietro a Patierno San Giuliano, ai Ponti Rossi. Di nuovo sottoterra a Sant’Eframo, Santa Maria delle Vegini Sant’Agnello. Lì si divideva in due rami: il primo verso Napoli, dove entrava dalla Porta di Costantinopoli; il secondo, più lungo, completava il percorso fino all’area flegrea, costeggiando la base di Castel Sant’Elmo per raggiungere Agnano, Pozzuoli e di seguito Miseno, dove portava l’acqua nella gigantesca Piscina Mirabilis. Lungo tutto il percorso si contavano, alla fine, dieci diramazioni, per rifornire, oltre Napoli, Nola, Atella, Acerra, Ercolano, Pompei, Pausylipon, Nisida, Baia, Pozzuoli, Cuma e Miseno.

L’acquedotto e la vasta rete idrica collegata necessitarono nel tempo di vari interventi di manutenzione. In particolare, il più impegnativo fu effettuato nel IV secolo, quando era imperatore Costantino, che finanziò personalmente l’impresa. Le opere di consolidamento e restauro fatte allora sono state identificate nelle epoche successive, poiché a contraddistinguerle è l’uso dell’opus latericium, mentre a caratterizzare la struttura originaria era l’opus reticulatum. Non mancarono periodi di inutilizzo, anche in epoca tardo romana, ma di fatto l’acquedotto rimase funzionante fino Carlo I d’Angiò, quando cadde in disuso per il pessimo stato in cui versava. 

Si pensò di recuperarlo nel 1560, su iniziativa del vicerè don Pedro de Toledo, che diede incarico all’architetto Pier Antonio Lettieri di progettarne il restauro, ma senza che poi si realizzasse. Un secondo tentativo fu fatto tre secoli più tardi, nel 1860, dal Comune di Napoli, che lo commissionò all’architetto Felice Abate. Anche in quel caso non si arrivò a nulla di concreto, sebbene Abate, dopo una ricognizione completa del tracciato, provvide a elaborarne tutte le planimetrie.