Il cielo terso alle prime luci dell’alba aveva annunciato una sfolgorante giornata d’inverno. Nella vasta pianura appena uscita dal silenzio della notte, ai suoni delicati della natura si erano sovrapposti i rumori dell’avanzata di centinaia di soldati, di cavalli e di mezzi pesanti.
Tutti diretti in un punto ben preciso, un grande terreno libero da alberi su cui si erano dovuti disporre secondo un ordine accuratamente prestabilito, in modo da disegnare il perimetro di un enorme rettangolo. Sui lati più lunghi si erano schierati in buon ordine i reggimenti del re, sui più corti i fanti appositamente giunti dal Molise e dall’Abruzzo. E agli angoli erano stati posizionati otto cannoni con gli artiglieri. E c’erano ancora gli squadroni di cavalleria e i dragoni della regina. I primi a convergere nel luogo designato ad ospitare il tanto atteso Evento. Destinato a far passare alla storia quel 20 gennaio 1752.

Da diciassette anni in quella data, il 20 gennaio, si festeggiava a Napoli e in tutto il Regno delle Due Sicilie il compleanno del re, Carlo di Borbone. Per quel suo trentaseiesimo genetliaco, fu organizzato un appuntamento speciale, lontano da Napoli, a Caserta, nell’area in Terra di Lavoro dove, per volontà del sovrano, sarebbe sorta la nuova capitale, a segnare la discontinuità del nuovo regno, finalmente autonomo, rispetto agli oltre due secoli di sottomissione alla Spagna. Cuore della capitale decentrata doveva essere una immensa reggia, a suggello del potere della nuova dinastia reale borbonica e del prestigio crescente del Regno nel panorama europeo. E proprio quella mattina era in programma la posa della prima pietra della nuova fabbrica.

La cerimonia era stata organizzata con grande sfarzo, alla presenza di re Carlo, della regina Amalia e di tutta la corte. Il perimetro formato dallo schieramento delle truppe corrispondeva a quello del palazzo da costruire. Dentro quello spazio (dove poi sarebbe stato collocato il coro della cappella reale) era stato installato un lussuoso padiglione, con dieci colonne a sorreggere stoffe pregiate. Rialzato rispetto al terreno, era accessibile attraverso una gradinata. All’interno, al centro, era collocato un grande tavolo coperto di velluti e broccati e sormontato da uno “strano” congegno d’oro, culminante in un giglio.

A descrivere dettagliatamente la cerimonia fu uno degli ospiti di maggior riguardo, anzi il più importante dopo i sovrani: Luigi Vanvitelli, il grande architetto, già affermato e famoso, scelto come progettista e direttore dei lavori per la costruzione della reggia.

Secondo la sua narrazione, il primo ospite ad arrivare nel posto convenuto fu il nunzio apostolico, Ludovico Gualterio, accolto dal clero della cappella reale. Subito dopo, cominciarono ad affluire i numerosi cortigiani invitati a Caserta, con abiti sfarzosi e acconciature elaborate. Per ultimi giunsero in carrozza i sovrani, accompagnati dal loro nutrito seguito.

Re Carlo e la regina Amalia salirono nel padiglione e si accomodarono su due sedie preziose a loro riservate, circondati dai ministri, dagli ambasciatori stranieri e da uno stuolo di cortigiani. Iniziò allora la cerimonia, per la quale erano stati già preparati tutti i materiali. C’era una cassetta di marmo con una iscrizione dedicata al Nunzio apostolico, che la benedisse e nella quale il re e la regina inserirono diverse medaglie d’oro, d’argento e di metallo con le loro effigi e la facciata dell’edificio da costruire. E c’erano due pietre da sotterrare: una con i nomi dei sovrani e la data e un’altra con una citazione poetica di Vanvitelli.

La cassetta fu cementata sopra la pietra dei sovrani dal re, con le sue mani, e poi legata con cinghie di velluto cremisi e oro, prima di essere calata nel pozzo delle fondamenta, apertosi improvvisamente sotto il tavolo, dove fu sistemata anche la pietra a nome di Vanvitelli. Quel momento solenne fu accompagnato dalle acclamazioni dei cortigiani, dagli spari dei fucili e dal giubilo del popolo, assiepato fuori al perimetro formato dai militari.

Di quella sontuosa cerimonia, oltre alla descrizione di Vanvitelli, resta la raffigurazione nel grande affresco di Gennaro Maldarelli, che fa bella mostra di sè nella Sala del Trono dal 1844. Sempre nella Reggia, sono esposti su broccati cremisi l’ascia cerimoniale e la cazzuola d’argento con i manici d’avorio usate da Carlo di Borbone in quella memorabile cerimonia. Il primo giorno del Palazzo Nuovo, che iniziò la sua storia in quella giornata limpida e assolata di duecentosettant’anni fa.

La Reggia di Caserta, un capolavoro di architettura firmato Luigi Vanvitelli

Dal quel 20 gennaio 1752, quando re Carlo aveva posato la prima pietra del Palazzo Nuovo nella grande pianura, i lavori erano partiti subito con alacrità, mobilitando centinaia di uomini, il cui numero era destinato ad aumentare ancora. A guidarli, attento a curare con la sua proverbiale meticolosità ogni dettaglio della complessa impresa, era l’architetto Luigi Vanvitelli, che prima di essere il direttore dei lavori era il progettista dell’opera, ideata per celebrare l’affermazione del potere borbonico sull’ormai autonomo regno del sud. Con il sovrano entusiasta promotore dell’opera, che gli aveva accordato fin dall’inizio massima fiducia insieme ad un budget praticamente illimitato, Vanvitelli procedeva spedito nella realizzazione della reggia ispirata alla magnificenza di Versailles, il palazzo voluto dal Re Sole che, non a caso, era il bisnonno di Carlo. 

Proprio il re aveva visionato per primo il progetto, imponente e ambizioso, che Vanvitelli gli aveva presentato nell’autunno del 1751, qualche mese prima dell’inizio dei lavori. Non solo un progetto cartaceo. Per il sovrano, l’architetto aveva fatto realizzare dei modelli da un esperto ebanista.

Capolavoro barocco e grande innovazione

Nell’immaginare il sontuoso palazzo, fulcro di quella che sarebbe dovuta diventare la nuova capitale del regno, Vanvitelli aveva messo a frutto tutta la sua scienza ed esperienza. La grande tradizione italiana e gli stili succedutisi dal Rinascimento in poi erano stati suoi punti di riferimento e di ispirazione. Così, pur interpretando al massimo livello il Barocco ancora imperante, di cui la sua Reggia è considerata comunque l’esempio più alto in Italia, vi aveva accompagnato elementi che preannunciavano il Neoclassicismo ormai alle porte. La sua grande preparazione tecnica, poi, gli aveva suggerito soluzioni fortemente innovative, destinate a fare scuola in tutta l’Europa. Dall’effetto cannocchiale in grado di integrare in modo straordinariamente suggestivo l’interno del palazzo con il parco circostante fino a connettere la nuova fabbrica con la capitale sul mare, alla novità dello scalone d’onore, per non parlare delle opere di ingegneria idraulica al servizio della Via d’Acqua attraverso il parco e, a monte, fino alle sorgenti sul Taburno da cui si alimentava.

Cambio di ritmo dopo il trasferimento di re Carlo in Spagna

Dopo la prima pietra del palazzo, un anno dopo, nel 1753, re Carlo con la regina Amalia aveva presenziato anche alla posa della prima pietra dell’acquedotto che avrebbe preso il suo nome da lui. Ma anche se si procedeva speditamente in quei primi anni, quando nel 1759 il sovrano dovette trasferirsi a Madrid per salire sul trono di Spagna, la costruzione era ancora ben lontana dal giungere a compimento. E la partenza di colui che l’aveva più fortemente voluta, ebbe inevitabili ripercussioni sul ritmo dei lavori, che subirono un notevole rallentamento. Inviso a Bernardo Tanucci, l’uomo forte del regno data la giovane età del nuovo re Ferdinando IV, per Vanvitelli iniziò una fase difficile, segnata anche da un forte ridimensionamento delle risorse impegnate a Caserta, che si riverberò sull’intera realizzazione dell’opera. Poi, nel 1764 ci si era messa pure l’epidemia di colera, a cui era seguita una durissima carestia proseguita anche nell’anno successivo, a complicare ulteriormente la situazione.

L’ultimo scorcio della sua vita, l’architetto lo trascorse proprio a Caserta, dove era andato a vivere per seguire il cantiere. Nonostante tutti i problemi e l’allungamento dei tempi, Vanvitelli era riuscito ugualmente a portare a termine gran parte della struttura che aveva progettato. E a Caserta cessò la sua vita il primo marzo 1773.

Dopo Luigi, Carlo Vanvitelli e altri allievi

Pur essendo ormai tramontato il progetto dello spostamento della capitale a Caserta, i lavori alla Reggia proseguirono sotto la direzione del figlio, Carlo Vanvitelli, che si fece carico di completare una dopo l’altra le varie parti dell’immenso palazzo, compreso l’allestimento degli interni. Con la collaborazione del fior fiore degli artigiani e degli artisti del regno, Carlo si dedicò a decorare, abbellire e dotare di tutti i comfort possibili a quel tempo gli appartamenti reali e le sale. In particolare, l’appartamento del principe ereditario che venne ultimato per primo, cominciò ad essere abitato nel 1780, quando re Ferdinando IV decise di soggiornare nel palazzo nei periodi che trascorreva a Caserta.  Proprio Ferdinando con la regina Maria Carolina fu presente all’inaugurazione della Cappella Palatina nel Natale del 1784.

Con l’avvento della Repubblica Napoletana nel 1799, tutte le proprietà reali furono espropriate e gran parte degli arredi vennero prelevati e depredati, per poi essere in parte recuperati con il ritorno dei Borbone sul trono di Napoli. Nel frattempo, la storia aveva registrato il cosiddetto Decennio francese che, soprattutto per impulso di Gioacchino Murat, segnò una ripresa importante dell’attività a Caserta, sotto la direzione dell’architetto Antonio De Simone

Nel 1821 morì Carlo Vanvitelli, ma l’opera monumentale iniziata quasi settant’anni prima non era ancora finita. L’ultimo tassello fu il luogo più rappresentativo dell’edificio, ovvero la Sala del Trono, completata dall’architetto Gaetano Genovese per volontà di Ferdinando II, che la volle presentare in occasione del Congresso delle Scienze, svoltosi a Napoli nel 1845. Fu quello, dunque, l’ultimo atto della costruzione della Reggia. C’era voluto quasi un secolo per portarla a compimento come era stata concepita da Luigi Vanvitelli, seppure con il sacrificio per motivi economici delle quattro torri angolari, della cupola centrale e degli alloggiamenti militari previsti originariamente nella piazza. 

Dall’Unità d’Italia

Il 22 maggio 1859 re Ferdinando II lasciò la vita terrena nel palazzo di Caserta, che solo per pochissimo altro tempo sarebbe rimasto proprietà dei Borbone. Poco più di un anno dopo, il 21 ottobre 1860, infatti, Garibaldi vi scrisse la lettera con cui consegnava formalmente la Terra di Lavoro al re sabaudo Vittorio Emanuele II.  La Reggia casertana rimase proprietà di Casa Savoia fino a 1919, quando l’edificio e tutto il suo magnifico contorno furono scorporati dal patrimonio della Corona per entrare nel patrimonio dello Stato italiano. 

La Seconda Guerra Mondiale non rispettò la splendida residenza reale di Caserta. I bombardamenti colpirono duro, provocando danni ingenti e la perdita di arredi e opere d’arte. E nell’ottobre 1943, dentro la Reggia, tra i suoi sontuosi arredi testimoni di un’epoca, fu insediato addirittura il quartier generale degli Alleati.

Fu nel 1997 che la più grande Reggia d’Europa, capolavoro assoluto di Luigi Vanvitelli, ha ottenuto il riconoscimento più ambito con l’inserimento nel Patrimonio Unesco.

A Caserta la Reggia più grande del mondo

Una Reggia immensa. La più grande tra quelle volute da Carlo di Borbone nella capitale del suo primo regno e nei dintorni. Ma anche la più grande in assoluto, maggiore perfino di Versailles da cui era stato ispirato il suo progetto, con i suoi 47mila metri quadri di spazi coperti e i 120 ettari di parco. Un record mondiale che ha resistito nei secoli, anche se la vastità dei suoi spazi è solo una parte del suo fascino, considerati la portata innovativa della progettazione e delle soluzioni architettoniche di Luigi Vanvitelli, le innumerevoli opere d’arte che vi sono custodite, gli arredi e gli oggetti preziosi, una dotazione di servizi all’avanguardia, senza trascurare il valore naturalistico e le suggestioni verdi del parco. 

Con i suoi cinque piani pari a 36 metri di altezza, le 1200 stanze e le 1742 finestre, il palazzo comincia a rivelare la sua straordinaria imponenza già nelle facciate, che si sviluppano su una superficie complessiva di 74mila metri quadri. Il prospetto principale presenta un corpo centrale avanzato adorno di un frontone. Le facciate interne, che danno sul giardino, sono uguali, ma attorno alle finestre ci sono delle lesene scanalate. I colori prescelti sono bianco antico e rosa, ottenuti utilizzando il travertino di Bellona, il marmo bianco di Carrara e laterizi, su cui Vanvitelli fece passare una patina per creare proprio un effetto invecchiamento.

Il palazzo è a pianta rettangolare. All’interno del rettangolo, due corpi di fabbrica s’intersecano a croce, in moda da formare quattro cortili identici, ciascuno di 3800 metri quadri. 

L’effetto cannocchiale

Al colpo d’occhio che riserva la vista dall’esterno del palazzo, segue, appena superato l’ingresso principale, la magia creata dalla genialità del Vanvitelli. Per collegare la Reggia al suo parco, l’architetto ideò una galleria che funzionava come un cannocchiale ottico, consentendo dall’interno la vista dell’intera via d’acqua, lunga tre chilometri, fino alla sua origine, la cascata ai piedi del monte Briano, alimentata dall’Acquedotto Carolino. Nel progetto originario, il “cannocchiale” avrebbe dovuto unire visivamente il Palazzo nuovo di Caserta con il Palazzo reale di Napoli, attraverso un viale diritto lungo venti chilometri. Opera che non fu mai realizzata, se non per alcuni tratti.

Dal vestibolo inferiore lungo lo Scalone d’onore

La metà del “cannocchiale” esistente coincide con il vestibolo inferiore, a pianta ottagonale, dal cui centro si possono ammirare anche tutti i quattro cortili interni.

Dal vestibolo si accede al primo ambiente della Reggia che fu completato sotto la direzione di Luigi Vanvitelli, sebbene egli non l’avesse previsto nel progetto originario: il Teatro di Corte, la cui costruzione, fortemente voluta da re Carlo, fu iniziata appena tre anni dopo quella del palazzo, anche se ad inaugurarlo fu il successore Ferdinando IV, in occasione del Carnevale del 1769. Il teatro casertano, un piccolo gioiello, fu ispirato al San Carlo per la scelta della forma a ferro di cavallo assolutamente innovativa, che garantiva un’ottima acustica e la massima visibilità della scena. Dotata, questa, di tutte le soluzioni tecniche più appropriate e all’avanguardia. E infatti il teatro di corte ospitò fin dall’inizio molti spettacoli, anche perché il re preferiva assistere lì, in privato, alle rappresentazioni in programma al San Carlo.

Davanti all’ingresso del Teatro s’impone la gigantesca statua alta tre metri dell’Ercole latinocopia romana di un’opera di Lisippo, riportata alla luce insieme al più famoso Ercole Farnese con cui faceva parte della Collezione Farnese ereditata da re Carlo.

Dall’altra parte del vestibolo, sulla destra, s’innalza per 32 metri un indiscusso, ardito capolavoro architettonico firmato da Luigi Vanvitelli: lo Scalone d’onore, mirabile scenografia barocca scelta come modello dai principali scaloni realizzati successivamente in Europa.

La rampa centrale è larga ben dieci metri e nella sua parte finale è guardata da due leoni di marmo chiaro, il destro opera di Tommaso Solari e il sinistro di Paolo Persico. Poi si divide in due rampe laterali parallele, non meno sontuose, separate da una parete in cui si aprono tre nicchie con le statue, al centro, della Maestà Regia di Tommaso Solari e, ai lati, del Merito di Andrea Violani e della Verità di Gaetano Salomone. Sul pianerottolo delle due rampe si osservano sia il vestibolo inferiore con la grande statua di Ercole sia quello superiore, sempre ottagonale, che è sovrastato da una volta, altra complessa creazione architettonica, giacchè in realtà di tratta di una struttura su due livelli. Sopra quello inferiore trovava posto l’orchestra che suonava per accompagnare la salita del re e degli ospiti d’onore. Al centro, un oculo consentiva di ammirare il livello superiore dove una finta volta è sospesa alla volta “vera” ancorata al tetto, dipinta con un affresco di Gerolamo Starace raffigurante La reggia di Apollo.

La Cappella Palatina

Dal vestibolo superiore, inondato di luce dalle ampie vetrate, si ha uno sguardo dall’alto davvero indimenticabile dello scalone. Dalla parte opposta alla scala si accede alla Cappella Palatina, che il re Carlo volle fosse ispirata a quella di Versailles, da cui si differenzia, tra l’altro, per la collocazione al piano nobile. Si trattò, comunque, di un’altra grande opera di Vanvitelli, magnifica sintesi dell’arte italiana dal Rinascimento al barocco, tanto che in essa si ravvisa l’origine del Neoclassicismo. Il grande architetto vi profuse giochi di luce e prospettici, la arricchì con decorazioni sontuose, dotandola di un importante soffitto a cassettoni, finestre ovali e marmi preziosi. Che però non si arrivò ad utilizzare nell’abside, in stucco, mentre il tabernacolo, destinato ad essere ricoperto di pietre preziose, fu poi realizzato in legno policromi.

Inaugurata nel Natale del 1784, fu duramente colpita dalle bombe nel 1943, riportandone danni significativi.

Il vestibolo superiore è anche l’ingresso al piano nobile, che è diviso i quattro parti, motivo per il quale gli Appartamenti reali prendono il nome di Quarti. A sud-ovest si trova il Quarto del Re, a sud est il Quarto del Principe ereditario, l’unico abitato a partire dal 1780, perché il primo ad essere completato; nell’ala a nord-ovest si trova, invece, il Quarto della Regina. Questi ambienti rientrano nel percorso di visita del Museo degli Appartamenti reali, distinti tra Appartamenti delll’800 (quelli del re e del principe ereditario) e del ‘700 (quello della regina). 

L’Appartamento del Re

Con la sua impronta neoclassica, ottocentesca, è stato famoso in Europa per la preziosità degli arredi e delle decorazioni, disegnati da Carlo Vanvitelli, influenzati gli uni e le altre dal gusto e dai consigli del primo artista di corte sotto Ferdinando IV, Jakob Philip Hackert. Nelle sale del re sono custodite le opere del pittore tedesco dedicate ai porti del regno: La mietitura di San Leucio, Il traghetto sul Sele, Veduta di Persano, Il giardino inglese, Il Monte Solaro a Capri con palazzo inglese, Veduta di Cava de’ Tirreni Veduta di Ischia.

Di grande pregio i mobili di Adam Weisweiller e quelli fatti appositamente realizzare in Francia. 

Nel 1859 Ferdinando II morì a Caserta, forse avvelenato, ma al momento si pensò che fosse stato vittima di una malattia infettiva, perciò si decise di bruciare la stanza da letto del sovrano e della regina Maria Teresa.  Una stanza in stile impero con numerosi richiami ed evocazione della vita militare. Fu completamente riarredata durante il periodo napoleonico da Giacchino Murat.

Autori delle parti affrescate furono Giuseppe Cammarano, Gennaro Bisogni, Agostino Fondi, Gaspare Mugnai, mentre i dipinti sono di Raffaele Postiglione. Nella Sala di Vestizione ora Sala d’Inverno, nome mutuato per l’affresco sulla volta di Fedele Fischetti con Filippo Pascale. La adornano cinque dipinti di cacce e scene militari di Hackert, con gli intagli in legno, piombo e oro di Gennaro Fiore, dorature di Bartolomeo Di Natale, i sovraspecchi di Girolamo Natale

L’appartamento di re Joachim Murat, dall’anticamera affrescata, la camera da letto e il salotto di seta rossa di San Leucio, accolse gran parte degli arredi provenienti dalla reggia di Portici, che dopo l’Unità d’Italia fu venduta da Vittorio Emanuele di Savoia alla Provincia di Napoli.

Il Quarto del Principe ereditario con le Sale delle Stagioni fa parte anch’esso del percorso museale.

L’Appartamento della Regina

Per la sontuosità degli arredi e l’allestimento di chiara impronta barocca, è considerato un appartamento settecentesco. Interessante la visita al boudoircollocato vicino alla stanza da letto di Maria Carolina. Era composto da diversi ambienti di “servizio”, come diremmo oggi, tutti molto finemente decorati: la stanza da lavoro, la stanza della vasca da bagno, la stanza del wc e la stanza da toletta. 

Nella stanza da lavoro, ispirata al celebre Salottino di Porcellana di Portici, vi erano spazi per la musica e per il ricamo. Le pareti foderate di raso giallo presentano numerosi specchi dalla fabbrica reale di Castellammare con il famoso lampadario dei pomodori opera forse di. Nella stanza dedicata campeggia una grande vasca da bagno in bianco marmo di Carrara, rivestita all’interno in rame. L’appartamento era dotato di un impianto idraulico che forniva acqua calda e fredda. C’era anche un bidet, che gli ingegneri piemontesi incaricati di fare l’inventario dopo l’Unità d’Italia, catalogarono come “uno strano oggetto a forma di chitarra”. Nella sala del wc, di ottone e legno intarsiato, distrutto nell’ultima guerra, c’erano acqua corrente e il collegamento in fogna. E non mancavano le pareti affrescate con decorazioni vegetali secondo il modello dei dipinti degli scavi di Ercolano.

Nella stanza della toeletta o Gabinetto degli Stucchi, dove la regina si abbigliava e si faceva bella, si trovano dei guardaroba in stile rococò, enormi specchi da Murano, opere affrescate di Fedele Fischetti e per decorazione le applicazioni dorate di Gennaro Fiore, autore anche di una particolare console a cinque gambe, e di Bartolomeo Di Natale.  Su una delle finestre è esposto un pregevole orologio musicale a gabbietta di Jacques Pierre Drotz, regalo a Maria Carolina della sorella Maria Antonietta di Francia. La stanza guardaroba è caratterizzata da armadi per abiti in verde chiaro con decorazioni di rose ed era attigua alla stanza delle domestiche, dotate di assi da stiro, con letti e un’altra stanza per preparare il caffè e la cioccolata.

Collezioni di libri e patrimonio documentario

Lungo il lato orientale del palazzo è situata la Biblioteca Palatina, composta da due anticamere e tre sale affrescate, che custodiscono ben 14mila volumi, oltre a due barometri, due mappamondi e un cannocchiale in ottone. Di particolare importanza è la Dichiarazione dei disegni del Real Palazzo con il progetto della Reggia redatto da Luigi Vanvitelli.

L’ Archivio Storico di Ferdinando IV è formato da diecimila buste di documenti e volumi risalenti ad un periodo dal XV secolo a metà Novecento.

La Pinacoteca accoglie le Vedute dei Porti del Regno di Hackert

Ogni anno, a Natale, fino al 1845, era tradizione che venisse allestito un presepe nella Reggia, sulla base di un progetto originale. All’opera partecipava tutta la corte, compresi i sovrani, molto appassionati alla rappresentazione sacra, che seguiva regole codificate nel tempo per la costruzione dello scoglio di sughero e delle scene principali. I pastori in terracotta, con abiti cuciti con le sete di San Leucio e grande cura dei dettagli, erano opera di artisti anche di chiara fama, come il Sanmartino.  Nella bianca Sala del Presepe di Corte, dalla particolare forma ellittica, è allestito un prezioso Presepe ottocentesco di 1200 statuine, ispirato alla Napoli del secolo precedente.

La Sala del Trono 

Sempre al piano nobile del palazzo, introdotta dalla Sala di Marte e dalla Sala di Astrea, si apre l’enorme Sala del Trono, lunga ben quaranta metri, seconda per ampiezza solo alla Galleria d’ingresso.

La sua costruzione fu avviata durante il Decennio francese, nel 1811, su commissione di Gioacchino Murat all’architetto Antonio De Simone, ma per il suo completamento si dovette attendere il 1845, quando re Ferdinando II lo affidò a Pietro Bianchi, artefice di San Francesco di Paola, a cui seguì nell’incarico Gaetano Genovese, a partire dal 1839. 

Sulle pareti corte, spiccano tra due coppie di colonne piatte due bassorilievi, raffiguranti la Fama in stucco dorato, opera di Tino Angelini e Tommaso Arnaud.

Sulle pareti lunghe, si susseguono 28 pilastri corinzi, scanalati e binati con capitelli di Gennaro Aveta. La volta a botte è costellata di dorature, ricca di decorazioni tardo impero, illuminata da lunette. Sulle sovraporte sono evidenti i simboli borbonici e del potere; l’architrave della stanza accoglie i ritratti dei re di Napoli, da Ruggiero il Normanno fino a Ferdinando II tranne i sovrani francesi. Nella sala operò uno stuolo di artisti della decorazione e degli ornati. Di particolare valore non solo artistico, ma anche storico, è l’affresco del 1844, firmato da Gennaro Maldarelli La posa della prima pietra del Palazzo il 20 gennaio 1752. Il pavimento è di cotto dipinto con effetto marmo. Sul fondo della sala è collocato il trono con i leoni sui braccioli, dietro compaiono delle sirene. In origine rosso con i gigli dorati, oggi è tappezzato di velluto celeste. 

Fu l’ultima sala ad essere completata nella Reggia, inaugurata nel 1845 in occasione del Congresso della Scienza.