Dai diversi grani prodotti nelle pianure, tanti pani che caratterizzano le comunità
Il pane dei Camaldoli PAT
Cocchia, palatone e palatella. Tanti nomi, a seconda della forma, per il pane storico prodotto dal Settecento nel circondario della città di Napoli, sulla collina dei Camaldoli, nella parte nord-occidentale della città. Di grano duro o figlio del connubio tra semola rimacinata e farina 0, con acqua, sale e perlopiù lievito madre, ma anche di birra, e un pizzico di zucchero. Un impasto laborioso, consegnato a una lievitazione lunga un’intera notte, custodito da teli di rustica juta e adagiato su tavole di legno. Prima di una seconda lavorazione, per modellare le grandi pagnotte rotonde, senza tagli. O la loro versione allungata, la cocchia, che diventa palatone, se di dimensione maggiore, o palatella, per i filoni più piccoli. Tutti cotti in forni rigorosamente a legna, di castagno, su pietra sorrentina. Per ottenere i pani dalla crosta spessa e croccante, custode di una mollica compatta ma morbida, dall’alveolatura piccola e di color avorio.
Si usavano le farine poco raffinate prodotte dai contadini ancora insediati nel contorno della città in continua espansione. Era il pane dei poveri, che durava nel tempo, fino a otto giorni.
Il pane di San Sebastiano al Vesuvio
Il pane di san Sebastiano è il frutto della maestria dei panificatori della zona, che si sono tramandati l’arte bianca della lavorazione della farina di generazione in generazione. Gli ingredienti sono quattro: farina di grano tenero, acqua della zona vesuviana, sale e lievito madre, il criscito. Uniti e mescolati gli ingredienti, si lascia in lievitazione per diverse ore, prima di procedere a formare le singole pagnotte, dal peso compreso trai i 500 grammi e i due chili, che escono dal forno a legna con una bella crosta dorata e sottile e nell’interno una mollica bianca e fragrante.
Il pane di Villaricca PAT
È la farina di grano tenero la protagonista di una storia di tale importanza da aver ispirato il nome antico dell’attuale Villaricca, che almeno dal X secolo fino al 1871 fu ufficialmente Panecocoli, in dialetto Panecuocolo, ovvero, letteralmente, il paese dove si cucina il pane.
Base dell’impasto è, appunto, la farina di grano tenero, mescolata con acqua, sale marino e lievito madre o pasta acida. Dopo una prima lievitazione, il prodotto viene lasciato riposare per qualche minuto coperto da un telo. Si riprende, poi, la lavorazione, prima di formare i pani, che vengono lasciati a lievitare un’altra volta per diverse ore. La cottura avviene di solito nel forno a legna, lasciato aperto per quasi tutto il tempo, fino a ottenere pagnotte dalla crosta spessa e croccante intorno ad una mollica morbida e chiara. A seconda che la forma sia rotonda o allungata, le pagnotte prendono il nome di panielli o panelle.
Il panbiscotto o Vascuotto di Agerola De.Co.
Era il pane in uso nella Repubblica di Amalfi. Ideato e prodotto a misura delle esigenze dei suoi naviganti, per resistere durante i lunghi periodi di navigazione. Fatto di acqua, sale, lievito madre o criscito, farina integrale di frumento, di segale, che gli donava un caratteristico colore scuro, e di mais. Un pane biscottato nel senso letterale del termine, visto che usciva da due cotture, la prima nel forno a legna e l’altra, dopo dodici ore, nel forno a fascina. Se ne otteneva un prodotto molto croccante, secco, senza alcuna traccia di umidità e dunque ideale per resistere a bordo, durante i viaggi più lunghi. Ma era largamente consumato anche a terra, tanto che la prima testimonianza storica che lo riguarda è dello storico Matteo Camere, secondo il quale gli amalfitani offrirono un pane cotto due volte alle truppe del re Carlo d’Angiò.
Per poterlo mangiare, si usava farlo rinvenire in acqua di mare, per poi conciarlo con olio, origano e sale, a cui si aggiunsero, in seguito alla loro diffusione in Europa, anche i pomodori. Condito solo con olio, lo si utilizzava nelle zuppe o lo si inzuppava nel latte per la colazione.
Dal gusto molto deciso, la “vascotta” è lunga 35 centimetri e presenta dei tagli sulla crosta fatti dopo la prima cottura, in modo da poterla spezzare a mano in fette di tre o quattro centimetri, da informare per la seconda volta. Per preparare il pane di cui venivano dotati i naviganti prima della partenza, si riunivano le famiglie, mentre il criscito veniva regolarmente scambiato tra vicini e tenuto vivo conservando, di volta in volta, un pezzo di impasto, da “rinfrescare” ogni giorno.
Il pane di Montecalvo irpino di Saragolla PAT
Nella valle del Miscano, tra Sannio, Irpinia e Foggiano, Montecalvo Irpino ha legato il suo nome a un pane reso particolare dall’uso di un grano duro antico, il Saragolla. Questo, sempre più raro fin dal Settecento e giunto sul punto di estinguersi, è stato da non molto tempo rivalutato per la sua versatilità e digeribilità e recuperato alla coltivazione, in virtù della sua ottima resistenza ai parassiti, che ne fanno una cultivar ideale per l’agricoltura bio, oltre che per il basso contenuto di glutine e, di contro, la presenza significativa di minerali, antiossidanti e proteine vegetali.
La farina di saragolla rimacinata, mescolata ad acqua, sale e lievito madre, il crescente, è la base del pane di Montecalvo, impastato a mano e preso a pugni, letteralmente, per creare le caratteristiche bolle d’aria dell’alveolatura della mollica, prima di essere lasciato a lievitare in un apposito contenitore di legno. Dopo la lievitazione, si torna a lavorarlo, formando dei pezzi di forma rotonda, che vengono avvolti in panni e lasciati lievitare di nuovo in contenitori di vimini. Al termine dalla seconda lievitazione, vengono incise delle croci sulle pagnotte, prima di infornarle nel forno a legna, dove resteranno per circa due ore.
Dalla crosta spessa e dalla mollica chiara, alta e compatta, il pane di Saragolla dura fino a una settimana e, con il passare dei giorni, diventa più saporito.
Il pane di Padula
Al primo sguardo, a causa dei tagli trasversali che ne disegnano la crosta, evocano il panis quadratus delle pitture pompeiane, descritto accuratamente da Virgilio. Rotonde, del peso di circa due chili, le pagnotte di Padula erano prodotte nella famosa Certosa per il consumo dei monaci e di tutti coloro che vi lavoravano già nel XVII secolo.
Questo pane si ottiene mischiando farina di grano tenero e duro, con l’aggiunta di lievito di birra sciolto in acqua e sale. Il tempo di lievitazione varia dalla tre o quattro ore d’estate alle quattro o cinque in inverno. Subito dopo, le pagnotte vengono incise sulla parte superiore e infornate nel forno a legna, preparato fin dal mattino, in modo da ricevere le pagnotte quando ha raggiunto alte temperature. La cottura è lenta e dura un paio d’ore. I pani che escono dal forno hanno una durata fino a due settimane.
Il pane di Baiano PAT
È il pane tipico del Vallo di Lauro, del Baianese e dell’area nolana. Antico, tanto da perdersi la memoria della sua origine, era una produzione prettamente casalinga, legata al consumo e alle esigenze familiari.
Da sempre, l’impasto è formato dalla miscela di farina bianca 0, acqua, sale e lievito naturale, che va preparato con una mezza giornata di anticipo rispetto all’uso. Vien poi messo a lievitare per circa un’ora e mezza su assi di legno, prima di essere di nuovo lavorato e suddiviso in pani dalla forma allungata fino circa 80 centimetri. Una seconda lievitazione, avviene in un ambiente caldo, per circa mezz’ora, prima dell’incontro finale con il forno a legna.
Ne esce un pane dalla crosta spessa, croccante, di colore dorato tendente al bruno, mentre la mollica chiara si distingue per le grosse occhiature.
Il pane di Calitri PAT
Gli oggetti tradizionalmente legati alla sua produzione sono talmente antichi da meritare di essere esposti nel Museo della Civiltà contadina di Aquilonia, dove non mancano neppure fotografie d’epoca a testimonianza delle varie fasi di lavorazione del cosiddetto pane d’e femmene. Infatti, erano le donne di Calitri e dei borghi vicini dell’Alta Irpinia, le stesse che lavoravano nei campi di grano dell’alta valle dell’Ofanto, a dedicarsi alla panificazione casalinga. Tra le mura domestiche, mescolavano farina di grano tenero, semola di grano duro, “crescente”, acqua e sale. L’impasto veniva lavorato e lasciato in lievitazione al caldo e al buio a lungo, dopo aver inciso una croce su ogni pagnotta. Intanto, i fornai del paese accendevano il forno e lo portavano lentamente a temperatura, affinché fosse pronto ad accogliere i pani rotondi dai 2 ai 6 chili di peso che le donne portavano da casa, nell’orario concordato per poter procedere alla cottura. Quella richiedeva tutta la perizia del fornaio, giacché bisognava spostare il pane nelle diverse parti del forno, a seconda del grado di cottura. Ne uscivano le fragranti pagnotte, le più grandi conosciute come “ruote di carro”, dalla crosta bruna, spessa e croccante, a racchiudere una mollica chiara con occhiature uniformi e diffuse. Pani destinati a durare non meno di una settimana, fino a quindici giorni.
Il Muffletto di Caposele PAT
Ha poco più di un secolo di storia, inscindibilmente legata alla costruzione nel nuovo acquedotto pugliese che dalla cittadina irpina, superato l’Appennino, porta l’acqua del Sele e del Calore Irpino ad alcune delle principali città della Puglia. Rispetto agli altri rinomati della Campania, è un piccolo pane, di circa 25 centimetri di diametro, di forma rotonda e dal gusto delicato, da consumare rigorosamente fresco. Agli ingredienti consueti dei pani campani – farina, acqua, sale e lievito - si aggiungono patate lessate, che vengono unite all’impasto base. Durante la lievitazione, viene tenuto coperto, poi si tagliano le pagnotte, di forma rotonda, e si procede a una ulteriore fase di lievitazione, per circa un’ora. Per la cottura si utilizzano forni a legna o, sempre più rari, a fascine. Oltre che dagli abitanti di Caposele, è tradizionalmente consumato dai fedeli che frequentano il santuario di San Gerardo Maiella a Materdomini.
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