Ė un primo, dalle caratteristiche di piatto unico, da cui mancano i due ingredienti principali della cucina campana: la pasta e il pomodoro.
La sua storia, infatti, è ancora più antica sia del consumo dei maccheroni che dell’arrivo in Europa dei “pomi dorati” dal Nuovo Mondo. Eppure, nonostante le importanti assenze, è ammesso sulla mensa proprio nei giorni di festa, anzi è irrinunciabile nel menu del Natale nella tradizione partenopea, mentre compare anche in quello della Pasqua nelle altre zone della Campania, perché si tratta di un piatto tipico che, con alcune variazioni, appartiene a tutta la regione, dal Casertano al Cilento, passando per Irpinia e Sannio, dove si gusta prevalentemente a Pasquetta.
Ancora oggi rinomata per le sue produzioni orticole, la Campania è stata sempre non solo produttrice, ma anche grande consumatrice di verdure, di tante specie e varie in ogni stagione dell’anno. Verdure che, nelle diverse versioni e combinazioni, rappresentavano l’ingrediente fondamentale del pasto quotidiano della stragrande maggioranza della popolazione, in campagna e pure in città. La “minestra”, appunto, accompagnata dal pane che, se secco, si ammorbidiva e si impreziosiva del suo sapore. Non a caso, sempre prima che i maccarune facessero irruzione nella quotidianità anche dei poveri, i napoletani e i campani per estensione erano definiti “mangiafoglie” dai forestieri.
La formula a base di soli vegetali del pasto quotidiano cambiava nei giorni di festa con l’aggiunta delle carni. Era allora che si celebrava un’unione di odori e di sapori che trasformava la solita “minestra” in menesta ‘mmaretata(in napoletano, con variazioni legate alle diverse forme dialettali), detta anche pignato grasso. Un piatto dalle origini molto antiche, come tanti di quelli della gastronomia campana. Una ricetta di erbe, legumi e carni è presente, infatti, nel “De re coquinaria”, all’interno del libro dedicato alle verdure, del famoso gastronomo romano Marco Gavio Apicio. Altro riferimento storico è all’arrivo a Napoli degli Aragonesi, al cui seguito giunse anche la “olla potrida” spagnola, fatta con verdure, legumi e carne di maiale.
Per il matrimonio della minestra campana, nei ricettari dei cuochi napoletani fin dal Cinquecento, si usava preferibilmente il quinto quarto, ovvero le parti meno nobili, ma molto saporite: cotenne, piedini, costine (tracchie) orecchi e muso di maiale, muso di vitello. Poi, nel tempo si sono aggiunte carni di pollo o di gallina, salsicce, parti più nobili di maiale e vitello. Una ricetta declinata in innumerevoli modi, a seconda delle disponibilità e dei gusti di ogni famiglia, nell’ambito delle usanze tipiche delle diverse comunità. E ciascuna di quelle variazioni si è trasmessa di generazione in generazione fino ai nostri giorni, magari con qualche piccola revisione legata all’uso delle carni più grasse e di erbe difficili da reperire. Come la torzella, la più antica varietà di cavolo campano.
Elemento base della ricetta sono, comunque, le verdure, quanto più varie possibile. La ricetta ne prevede fino a sedici, una parte delle quali dovrebbero essere rigorosamente selvatiche, come le cicorie, la borragine, il cardo, insieme a verza, scarola, indivia, bietole, cavolo nero, la famosa torzella e via elencando.
Seppur considerata semplice e popolare, la ricetta della menesta è piuttosto elaborata, quanto meno per i numerosi passaggi che prevede: le verdure da lessare separatamente e le carni, da soffriggere a parte, in base a caratteristiche e consistenza, per poi farle bollire tutte insieme a lungo, per ore, schiumando e sgrassando via via il brodo, a cui poi si andranno ad aggiungere croste di formaggio e le varie verdure, per la fase della cottura finale, con cui si celebra ufficialmente il matrimonio
Una volta terminata la cottura, la minestra va fatta riposare, prima di essere servita in tavola con pane tostato o con i caratteristici “scagliuozzi”, ovvero dei triangoli di polenta fritti.
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