Nella sua “Gatta Cenerentola”, forse la più celebre delle favole raccolte ne “Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerilli”, pubblicato nella prima edizione proprio nell'anno 1634, Giovan Battista Basile cita un elenco di leccornie comprendente anche la pastiera.
In compagnia di altri cibi, tutti salati, come pare che fosse anch’essa nella sua versione più antica. Già, ma quale si può considerare la pastiera più antica? Il ventaglio delle risposte è ampio e spazia, come spesso accade nelle cose di Napoli, tra mito e storia, tra fantasia e realtà.
Il numero e la varietà degli ingredienti che compongono il dolce della Pasqua partenopea sono protagonisti delle leggende, tutte molto affascinanti, sulla sua origine. Tra queste, non poteva mancare la sirena Partenope, sempre presente nelle storie che riguardano gli aspetti più caratteristici della sua città. La leggenda racconta che, grati per il canto armonioso che dal mare sempre regalava loro, gli abitanti dei borghi affacciati sul golfo decisero di inviarle, attraverso le sette ragazze più belle di ciascuno di essi, i sette più preziosi doni della natura del luogo. Così, le fanciulle portarono a Partenope farina, ricotta, grano tenero, uova, zucchero, spezie e acqua di fiori d’arancio. La sirena, a sua volta, pensò di farne dono agli dei, che impastarono gli ingredienti, ottenendone un dolce che trovarono squisito.
Un’altra narrazione, sempre legata al mare, vede le mogli dei pescatori del golfo lasciare sulla riva ceste piene dei sette ingredienti speciali, per propiziare così il ritorno dei loro uomini sani e salvi. Il mare avrebbe mescolato tutto e creato un dolce, che diede il benvenuto ai pescatori ritornati felicemente a casa.
Sempre ai pescatori è collegata la storia sul nome del dolce pasquale. Per poter disporre di un cibo nutriente che si conservasse per tutta la durata delle battute di pesca primaverili, si dice che portassero con loro quanto la stagione offriva, in particolare il grano cotto, che fungeva da collante tra gli altri ingredienti, per cui chiamavano quel composto finale ‘a pasta ‘e ajer, da cui pastiera.
Certamente, gli ingredienti utilizzati hanno tutti un valore fortemente simbolico, che si collega sia culti pagani relativi alla fertilità e alla rinascita della terra a primavera, in particolare in onore di Cerere, sia alla simbologia cristiana del ritorno alla vita dopo la morte caratteristica del periodo pasquale. Il frumento evoca la fecondità, le uova la vita, la farina simboleggia la ricchezza, la ricotta l’abbondanza, i fiori d’arancio richiamano il profumo primaverile della campagna campana e, infine, lo zucchero è la dolcezza, con l’aggiunta di spezie orientali.
La certezza storica è che maestre nella produzione di pastiere erano le monache di San Gregorio Armeno, famose in tutta la città per i loro dolci. Quando iniziavano a sfornare le pastiere, rigorosamente il Giovedì Santo, il profumo si diffondeva in tutto il quartiere. Quelle creazioni prelibate finivano sulle mense pasquali delle famiglie nobili e più in vista della città, da cui le monache provenivano e che sostenevano economicamente il convento.
La prima ricetta, messa per iscritto da Antonio Latini, si trova nel suo libro “Lo scalco alla moderna” del 1693, e vede ingredienti inusuali come parmigiano, pepe, sale e pistacchi, in aggiunta al grano e alla ricotta. Più vicina alla versione oggi nota, è la pastiera secondo Ippolito Cavalcanti, l’autore della Cucina Teorico-pratica del 1837.
Proprio in quegli anni, si dice che la “regina triste” Maria Teresa d’Asburgo Teschen, prima moglie di Ferdinando II di Borbone, avesse accennato un sorriso in pubblico per la prima volta gustando una fetta di pastiera che il marito, che ne era molto ghiotto, aveva insistito provasse. Il re commentò a gran voce la bella novità, rammaricandosi che per veder sorridere la moglie avrebbe dovuto aspettare la pastiera della Pasqua seguente.
Con la sua camicia di pasta frolla, ripiena di grano cotto, ricotta, uova, acqua millefiori e spezie che variano a seconda del gusto, la pastiera è presente nelle tradizioni pasquali di tutta la Campania. Perciò è stata riconosciuta Prodotto Agroalimentare Tradizionale campano PAT.
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