È con l’equinozio d’autunno che arriva il tempo delle mele nelle valli del Basso Sannio.

La Caudina e la Telesina sono storicamente parte dell’areale delle annurche, insieme alle confinanti valli casertane da cui i meleti si sono progressivamente diffusi negli anni recenti nella grande pianura, fino a raggiungere il mare, nei pressi di Sessa Aurunca.

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Un’espansione millennial, conseguenza della grande notorietà conquistata dalla mela campana, grazie agli studi scientifici che ne hanno valorizzato le qualità nutrizionali, e suggellata dal riconoscimento europeo dell’Indicazione Geografica Protetta nel 2006. Un bell’epilogo per una specie che appena quarant’anni fa aveva rischiato l’estinzione, soppiantata nei gusti dei consumatori da una mela americana più grande e più rossa e finanche decimata da un’alluvione. Nulla ha potuto annullare, però, il valore e le particolarità uniche della piccola Orcula, descritta da Plinio e tanto apprezzata dai Romani che la si trova rappresentata in alcuni dipinti parietali di Pompei ed Ercolano.

E’ antica, la mela annurca, come le terre vocate alla sua coltivazione, iniziata dagli Osci e dai Sanniti. Con caratteristiche che il tempo non ha modificato, sebbene la rinascita 2.0 vi abbia innestato novità che hanno segnato un’evoluzione significativa nel solco della continuità. Quella dei gesti misurati, della fatica e della meticolosità con cui anche quest’anno sono stati raccolti a mano i pomi gialli, ancora acerbi e praticamente immangiabili, di cui le piante si sarebbero presto liberate, perché non è sui rami materni che maturano le annurche.

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Lo sa bene Antonio Ciervo ( 0823/956565 ). Nei suoi terreni a Sant’Agata de’ Goti, nel cuore della Valle Caudina, i meli crescono da prima che nascesse. Lui li ricorda da quando li seguiva il nonno e poi in mano al padre «che vendeva gli alberi con le mele sopra. Qui dalle nostre parti, tutti i contadini avevano i meli, da sempre». Così, da ragazzo, gli è venuta la passione che lo ha fatto decidere a riprendere la coltivazione delle mele nel 1980. All’inizio, le vendeva sugli alberi anche lui, poi ha cominciato a curarne in azienda anche l’arrossamento, la fase più delicata, caratteristica e spettacolare del ciclo vitale, particolarissimo, della melannurca campana.

«Il nostro clima, nelle valli, è il più indicato per le annurche – spiega Ciervo - a causa degli sbalzi termici tra le ore del giorno e della notte, che sono assenti per esempio nei terreni più vicini al mare e che, però, sono fondamentali per la maturazione delle mele e per la comparsa del colore rosso che le caratterizza». Un rosso che cambia a seconda delle diverse cultivar utilizzate, una delle novità degli impianti moderni. Perché le annurche tradizionali, le più antiche, sono oggi le meno diffuse. E sono loro a presentare la tonalità di rosso più chiara, una volta completata la maturazione, rispetto alle altre due varietà “sorelle”, ormai prevalenti: la Rossa del Sud, la più “colorita”, dai riflessi quasi violacei, e la Bella del Sud, un po’ più chiara. 

L’avvento di queste ultime ha cambiato i tempi e i ritmi della produzione. «Quand’ero ragazzo – ricorda Ciervo – gli alberi erano alti cinque o sei metri e la raccolta a mano era più complicata e poi  cominciava più tardi, ai primi di ottobre. La fase di arrossamento durava non meno di 30/35 giorni e così si arrivava a novembre, con il freddo e il maltempo. Le nuove varietà ci permettono di avviare la raccolta intorno al 21/22 settembre e la permanenza nel melaio dura una quindicina di giorni, per cui si conclude a metà ottobre, quando la stagione è ancora buona».

Fondamentale, il passaggio nel melaio è tanto delicato quanto laborioso. Fin dalla preparazione delle cosiddette “porche”che sono delle larghe strisce di terra rialzate, separate da canali di scolo per far defluire l’acqua piovana e coperte tradizionalmente da paglia di grano, poi sostituita da trucioli di legno non trattato, «mentre da qualche anno utilizziamo teli di tnt, il tessuto non tessuto delle mascherine per intenderci, che non fanno crescere le infestanti e impediscono gli attacchi delle lumache», specifica Ciervo. È sopra quei “letti” bianchi, ben livellati, puliti e morbidi, che vengono adagiate le mele appena raccolte e trasportate dai meleti con la massima accortezza in cassette da 18/20 chili. «Le mele vanno sistemate con attenzione, distanziate tra loro, in modo che non si tocchino e che la luce le raggiunga anche sui lati, collocate all’inizio con il picciolo sotto – è la descrizione dell’esperto –  Dopo alcuni giorni vano girate con il picciolo verso l’alto una per una, a mano, selezionando quelle da scartare e controllando che non vi siano marciumi. Operazioni che tradizionalmente da noi fanno le donne». 

Lì, nei melai, le annurche diventano rosse grazie ad una esposizione al sole protetta da teli ombreggianti, che impediscono ai raggi diretti di bruciare i pomi, facendoli raggrinzire. C’è una grande cura dietro l’arrossamento di ogni singola mela: lavoro impegnativo, « che dà però molta soddisfazione», sottolinea Ciervo, guardando con giusto compiacimento i melai pieni, che spiccano per il colore rosso vivo tra il verde della campagna. Ormai la gran parte dei frutti ha già quasi completato la maturazione, mentre si distinguono su altri melai le macchie gialle delle annurche delle raccolte più tardive, che stanno lentamente cambiando colore. E’ la vittoria dell’antica, gustosa, salutare Orcula. Che è tornata a farsi apprezzare e scegliere nel giovane millennio come lo era stata negli altri duemila anni della sua storia precedente.