Nella bella stagione, era il luogo ideale per fermarsi al calar delle tenebre a trascorrervi la notte. In alto, al sicuro sul fianco della montagna, la piccola spianata offriva spazio sufficiente a sistemare le greggi nei recinti fino alla precoce alba della primavera e dell’estate.
Nel cuore dell’inverno, i baccelli rigonfi occhieggiano numerosi tra le foglie verdi argentate insieme a tanti fiori che si preparano alla trasformazione.
Ancora qualche decennio fa, i bambini giocavano abitualmente tra i grossi cumuli di creta disseminati in ogni angolo del paese.
Il posto d’onore le spetta anche sulla parete, oltre che nella memoria.
Una foto in bianco e nero la ritrae in navigazione. Il nome dipinto sulla murata, in bell’evidenza: Vittoria. Lo stesso che si legge sul modellino collocato poco più sotto, che restituisce tridimensionalità e colori all’immagine d’epoca di una nave speciale. All’origine di una storia di famiglia. Iniziata un secolo fa a Sorrento da Antonino Di Leva, comandante e proprietario di quella motonave, ancora in gran parte di legno, che solcava il mare nel golfo di Napoli. Requisita per attività belliche durante l’ultima guerra guerra, fu poi ceduta a una cooperativa di La Spezia, proseguendo la sua illustre carriera nel Mar Ligure.
Capitano di grande esperienza, ad Antonino non mancava lo spirito d’iniziativa.
E con il dopoguerra e l’arrivo dei primi turisti stranieri, inglesi soprattutto, ricominciò dai motoscafi. Di legno lucido, eleganti e veloci, ci portava i forestieri a Capri. E non si limitava alla traversata andata e ritorno tra Sorrento e l’isola di Tiberio, ma offriva anche la visita alla Grotta Azzurra accompagnando la navigazione con racconti da vera guida turistica e curando tutti i servizi dell’escursione caprese. Ci credeva, Antonino, in quella nuova attività e la famiglia, che lo riconosceva compatta come suo punto di riferimento, lo supportava e partecipava all’impresa.
Con il costante incremento dei flussi turistici in Penisola e la notorietà di Capri, si moltiplicò anche il numero dei motoscafi e dei collegamenti. L’intuizione di Di Leva, allora, fu di unire le forze dei piccoli armatori sorrentini. Non era un’operazione facile, tanto meno dall’esito scontato. Già trovarsi tutti attorno a un tavolo fu un mezzo successo e alla fine la trattativa andò pure a buon fine. Fu così che nacque il Gruppo Motobarche e Motoscafi Sorrentini, il Grummos, di cui tutti erano soci con quote misurate in carati, come i diamanti. E si trovarono anche d’accordo nell’assegnare la presidenza a Di Leva, che la mantenne a lungo. Dieci anni dopo, Grummos generò la nuova società Gruson, Gruppo Sorrentino di Navigazione.
«La novità portò benefici a tutti i soci armatori e anche ai viaggiatori, che poterono contare su un biglietto unificato», ricorda Paolo Durante che, giovanissimo, fu partecipe di quel cambiamento come principale collaboratore di colui che chiama “zio Antonino” con un tono di affetto, riconoscenza e un po’ di nostalgia. «Ero un ragazzo quando cominciò a portarmi sempre con sé e ad informarmi di tutte le questioni di lavoro – spiega - Una formazione preziosa per il ruolo di amministratore che mi affidò dopo poco. Una scelta appoggiata come sempre da tutta la famiglia, che è rimasta sempre unita al fianco del suo “capo” e delle sue scelte per il bene di tutti».
Nel frattempo cambiavano anche le navi, non più di legno: «Comprammo la “San Valentino”, la nave di ferro la chiamavamo», racconta Durante, che era diventato presidente della compagnia.
E c’è anche quella motonave nella collezione di famiglia. Non solo di fotografie, ma di modellini, riprodotti con precisione millimetrica ed esposti nella casa che raccoglie i ricordi e custodisce la memoria dei Di Leva da una generazione all’altra.
In una delle stanze trasformata in laboratorio, Carlo Di Leva si dedica alla sua passione per il modellismo navale. Non è specializzato in nessun tipo di imbarcazione, perché ne ha riprodotte delle più diverse forme e epoche.
Dai galeoni ai velieri, dalle navi mercantili e da guerra ai pescherecci. L’ultima opera della lunga serie, perfetta nel corredo di accessori, comprese le spaselle con i pesci, è un tipico gozzo sorrentino.La maestria raggiunta negli anni con pazienza e dedizione gli ha permesso di riprodurre tutte le imbarcazioni appartenute ai Di Leva, dalla “Vittoria” ai motoscafi anni Cinquanta, fino ai moderni jet dalla carena planante, che volano veloci sul mare.
«Sono arrivati dalla Norvegia – racconta Paolo Durante –
e sono l’evoluzione degli aliscafi che chiamavamo “popov”, per l’origine russa». Una nuova stagione per la navigazione nel golfo, in cui ancora una volta l’autorevolezza di Antonino Di Leva ebbe il suo peso, mentre i nipoti, tutti capitani, ottenevano il comando delle navi di famiglia. «La stagione dei “popov”, che si sollevavano sul mare con le ali, fu quella dell’accordo con Agostino Lauro, che li aveva portati a Ischia – continua la narrazione di Durante – E’ stata un’altra fase della navigazione e dei rapporti tra armatori nel golfo.
Intanto, come aveva fatto zio Antonino con me, avevo individuato il mio successore in Salvatore, uno dei suoi nipoti, e lui ne era stato orgoglioso.
A Salvatore ho passato il testimone per continuare il percorso quando ho deciso di dedicarmi all’incoming turistico e di restare solo presidente onorario della compagnia».
Tra le centinaia di modellini c’è anche il “San Valentino”, perfetta riproduzione in scala della motonave che fa ancora la sua parte, in mare.
Seppure per occasioni speciali, come raccontano Antonino e Mario Di Leva, nipoti del capostipite, che si sono succeduti al suo comando: «Ogni anno con i fedeli della chiesa di Santa Lucia andiamo a Crapolla per celebrare la messa in mare». L’uscita più recente è stata per il grande schermo: la protagonista de “L’Amica geniale” ha viaggiato proprio sulla “nave di ferro”. Che oggi se ne sta all’ormeggio nel porto di Marina Piccola.
Testimone anch’esso di una storia centenaria.
Di famiglia. Di navi. Di mare.
Il lampo del titolo è un’illuminazione, legata a un riflesso speciale, quello arcobalenico della lampuga che si batte sotto la barca prima di mollare e lasciarsi tirare su: è un flash scenografico che si fa flashback e gioco di parole. Come piace a me.
Potente, gagliardo, fulmineo.
Alto quaranta metri. Trasparente contro il cielo azzurro di una giornata tersa d’autunno. Applausi scroscianti accolsero lo zampillo di acqua pura, in quella domenica 9 novembre 1958, mentre s’innalzava sul piazzale gremito di popolo ai piedi del Castello Aragonese. E il mare tutt’intorno era pieno di imbarcazioni pavesate a festa, che salutarono con le loro sirene quella novità che già si poteva definire storica. Dopo anni di attesa, l’acquedotto sottomarino era terminato e portava in dote a Ischia l’acqua che avrebbe messo fine alla sua sete. Se ne giovava già Procida da un paio d’anni e ora era la volta dell’isola più lontana dalla terraferma, punto di arrivo di un progetto che aveva cominciato a prendere forma all’inizio di quel decennio di grandi opere e di profondi cambiamenti.
A suggellare l’eccezionalità di quella giornata fu la nutrita e inusuale presenza di ospiti giunti apposta da Napoli e da Roma per l’inaugurazione.
Due ministri, politici nazionali e regionali, esponenti delle istituzioni e del mondo accademico insieme ai tanti tecnici che avevano seguito l’opera nella sua complessa evoluzione. Un lungo elenco, riportato nelle cronache dei giornali del lunedì, che non mancarono di dare risalto alla notizia. Con l’ampio resoconto del discorso tenuto dal ministro per il Mezzogiorno Giulio Pastore. Fu lui, alle dodici in punto, a premere il pulsante che fece scaturire lo spettacolare zampillo d’acqua sul piazzale Aragonese, entre suonavano le campane di tutte le chiese dell’isola. E fu sempre lui ad inaugurare nel pomeriggio le fontane di Ischia Porto, Casamicciola, Lacco Ameno e Forio, dalle quali l’acqua di Napoli sgorgava ormai in ogni parte dell’isola
DALLE SORGENTI IN COLLINA ALLE NAVI CISTERNA
Due secoli e mezzo prima, nel borgo ai piedi del Castello, gli ischitani avevano festeggiato con lo
stesso entusiasmo il completamento dell’acquedotto di Buceto. E a lungo la sorgente baranese era riuscita a soddisfare le esigenze di una parte significativa della popolazione, tra Ischia e Barano. Così come gli abitanti delle altre contrade attingevano con appositi acquedotti dalle sorgenti di acque fredde e potabili presenti, perlopiù, nelle zone collinari dell’interno: Ervaniello e Piesco a Casamicciola, Ciglio nell’omonima frazione alle falde dell’Epomeo, Piellero a Forio, Cava Sia a Panza, Cava dell’Acqua a Succhivo e Nitrodi, a Barano, la più prodiga e apprezzata per le sue proprietà curative, note fin dall’antichità. E, più vicine al mare, l’acqua Mirtina, nell’Arso d’Ischia, e l’acqua del Pisciariello a Lacco Ameno, colpevole di lasciare i denti neri a chi ne faceva uso.
Alimentate dalle piogge, la portata di tutte queste fonti tendeva a variare notevolmente nel corso dell’anno, con inevitabili conseguenze sull’approvvigionamento della popolazione. Che, quindi, cercava sfruttare al meglio anche l’acqua piovana, raccogliendola nelle capienti cisterne di cui erano provviste tutte le case. Ma l’acqua era comunque un bene di limitata disponibilità, perciò da utilizzare sempre con parsimonia. E il progressivo aumento demografico con le accresciute esigenze igieniche la resero sempre più insufficiente e preziosa. Finché, nel secolo scorso, le fonti di cui l’isola naturalmente disponeva non bstarono più e fu necessario integrarne la produzione sempre più massicciamente, ricorrendo all’importazione dalla terraferma con le navi cisterna.
Grandi e piccole ne arrivavano ogni giorno, per rifornire di acqua potabile i serbatoi pubblici di ogni zona dell’isola. E anche gli alberghi che stavano sorgendo lungo la costa ischitana, con un ulteriore incremento del fabbisogno idrico. Navi e bettoline ancoravano a pochi metri dalla riva. Con le scialuppe, i marinai portavano a terra le manichette fino agli impianti dei destinatari. In contemporanea, si assisteva ad un curioso movimento di barche al contrario. Chi aveva un natante, lo caricava di damigiane e di altri recipienti utili e andava a rifornirsi alla nave per i bisogni della famiglia. E non era raro che qualcuno scaricasse l’acqua direttamente nella barca, rischiando pure di capovolgersi, come talvolta era accaduto tra l’ilarità degli astanti.
UNA “STRANA” IDEA PER DISSETARE LE ISOLE
Il sistema di trasporto dell’acqua era abbastanza efficiente e collaudato, ma non ne garantiva l’igiene e la potabilità. E, soprattutto, era già al limite delle sue capacità di soddisfare le esigenze di una comunità sempre più numerosa e di una economia turistica in rapida espansione. Perciò a Ischia si cominciò a ragionare sulle possibili soluzioni al problema idrico, assoluta priorità rispetto ad ogni programma di sviluppo.
E tra le varie ipotesi, fu considerato anche l’approvvigionamento dalla terraferma con una condotta sottomarina. L’idea fu lanciata sul giornale “Agire” e suscitò l’interesse di alcuni amministratori dell’epoca, che fecero redigere un progetto di massima. In occasione di una sua vacanza a Ischia nel 1950, ne fu informato l’onorevole Attilio Piccioni, che consigliò di presentarlo al più presto alla Cassa per il Mezzogiorno da poco istituita. Ciò che fu fatto dopo la sua partenza. E il 16 marzo 1951 arrivò a Ischia la notizia del via libera all’opera.
Proprio il giorno prima, il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno aveva deciso la costruzione di una condotta sottomarina per Procida e Ischia. L’opera fu inserita nel grande progetto del nuovo acquedotto campano, uno degli impianti idrici più moderni d’Europa. Definito fin dall’inizio, senza ombra di iperbole, colossale e avveniristico. Infatti, utilizzando l’acqua di sorgenti della Campania e del Molise, doveva servire Napoli e 157 Comuni delle quattro province campane con oltre 3 milioni di abitanti.
Per la sua realizzazione, furono mobilitati giorno e notte migliaia di operai e tecnici specializzati e si creò sul territorio un importante indotto industriale.
STESSO PERCORSO DEI VIAGGIATORI DEL GRAND TOUR
Una costola di questo colosso doveva rispondere al fabbisogno d’acqua delle isole. L’impresa era senza precedenti per la lunghezza dei tratti sottomarini, nei quali la posa in opera delle due condotte aveva richiesto soluzioni tecniche fortemente innovative e impegnato mano d’opera specializzata proveniente da ogni parte d’Italia. L’enorme diramazione partita da Napoli, dissetava i comuni flegrei prima di iniziare il suo percorso sottomarino dalla spiaggia di Miliscola, da dove anticamente partivano i viaggiatori del Grand Tour diretti alle isole. Identiche alle tappe del loro viaggio verso Ischia erano anche le tratte del nuovo acquedotto: immerso ad una profondità di diciotto metri lungo tutto il Canale di Procida, riemergeva alla Marina di Sancio Cattolico e da lì proseguiva fino al serbatoio per l’isola di Graziella, dove l’acqua era arrivata già nel 1956; poi, il tratto terrestre fino alla parte inglobata nel nuovo ponte di collegamento tra Procida e Vivara; attraversato pure l’isolotto, l’impianto rientrava in mare fino a Ischia, dove tornava terrestre in corrispondenza dello storico Ponte Aragonese, per raggiungere, a pochi metri, il lato del piazzale dominato dal Castello in cui si alzò il getto inaugurale.
“Acqua pura e gradita”, la definì il vescovo d’Ischia nell’iscrizione sulla lapide marmorea scoperta in quella serena mattina di novembre. Davanti allo spettacolo del mare e, sullo sfondo, i monti del Matese, custodi della sorgente del Torano che quell’acqua preziosa genera. Ancora oggi, come settant’anni fa, “per quanti qui nella verde sempre assolata Aenaria vengono per la loro salute”.
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