Quattro pergamene, passate alla storia come i più antichi documenti scritti in lingua volgare: sono i cosiddetti Placiti campani o Placiti cassinesi, risalenti all’epoca del principato longobardo di Capua, tra il 960 e il 963.
Per la precisione, si tratta di tre placiti e di un memoratorio (quello sottoscritto a Teano), tutti collegati ad altrettante dispute giudiziarie sui confini di monasteri benedettini di Capua, Sessa Aurunca e Teano, dipendenti dall’abbazia di Montecassino. Il più antico di tutti, il placito sottoscritto a Capua, riguarda una lite sui limiti di proprietà del monastero di Montecassino con un privato, Rodelgrimo d’Aquino. Il documento, come gli altri tre simili, contiene testimonianze giurate scritte dal giudice e ripetute dai testimoni prima di essere registrate dal notaio. “Sao ko kelle terre…”, è l’incipit della formula giuridica che per la prima volta è espressa non in latino, com’era e come sarà ancora a lungo d’uso dei documenti ufficiali, ma nell’idioma volgare campano, che ottenne così un riconoscimento come lingua dotta, utilizzabile anche nel linguaggio cancelleresco, formale, oltre che nella comunicazione quotidiana, forse con l’obiettivo di rendere accessibile ad una più ampia platea il contenuto della testimonianza. L’alba della nostra lingua madre...
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